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FEDERAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI CULTURALI E SCIENTIFICHE
Milano

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L'equazione algebrica di Nazca

di Michele Manher

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« Che cosa ci fa una nave in cima alle montagne? », si chiesero i bambini del villaggio di Pete, usciti nel bosco tra le rupi rosse in cerca di more.

Graham Greene fa pronunciare queste parole ad uno dei bambini d’un ipotetico villaggio d’un ipotetico futuro - prossimo venturo - nel racconto intitolato Una scoperta tra i boschi, che lo scrittore anglosassone inserì in una piccola raccolta, quattro brevi storie, intitolata Una Sensazione di Realtà  (1963). Il villaggio è costituito da una comunità di sopravvissuti ad una catastrofe di cui nessuno ha più memoria ed i cui abitanti sono esseri degradati e mostruosi.

Per un poeta come Graham Greene la realtà era una sensazione senza prove, le cui spiegazioni appartenevano al mondo ambiguo ed incerto delle ipotesi. Per un giornalista “fuori dal coro” come Peter Kolosimo era invece un mistero nascosto tra le pieghe del tempo, capace di sfidare continuamente, in una sorta di “rivoluzione perenne”, le certezze secolarizzate della cultura ufficiale. Ogni tanto, dall’oceano quasi del tutto inesplorato di questo “mistero”, affiorano reperti il cui « Dunque » può stagliarsi inquietante dinnanzi alle animose pattuglie delle nostre convinzioni. Se ciò che viene scoperto non è riconducibile ai paradigmi ufficiali e l’indagine scientifica non può trovare dimostrazioni soddisfacenti, allora cominciano ad accumularsi quell’energia e quella tensione che, quando raggiungono un valore critico, scatenano un improvviso - ed a volte drammatico - “salto” verso nuovi paradigmi.

Uno dei modi di procedere che ha la ricerca scientifica è quello di classificare, catalogare e « mappare » anche fotograficamente un insieme di reperti, per poi analizzarli con calma in luoghi diversi, contemporaneamente o in periodi successivi. Si è fatto così, ad esempio, con le foto del deserto di Nazca esaminate da botanici, storici dell’arte precolombiana, geologi, zoologi, astronomi ed antropologi; ma forse mai da fisici teorici o sperimentali. Esaminando con attenzione una foto come quella d'apertura (del colibrì), un fisico infatti potrebbe notare qualcosa d'ambiguo (o inquietante, secondo i gusti), così come fu ambigua per i bambini di Fondo, ignari delle tragedie passate dell’Umanità, la scoperta d’una nave in cima ad una montagna.

Di che si tratta? Nella foto d'apertura vediamo uno dei più celebri disegni della Pampa Colorada a Nazca, il disegno del colibrì, che col suo lungo becco sugge qualcosa di non ben chiaro, dal momento che la struttura cui si trova attaccato non è, con ogni evidenza, un fiore.

Tuttavia non è questa la sola stranezza di quel gruppo d'immagini. Se vogliamo, il colibrì che sugge non-si-sa-bene-cosa da non-si-sa-bene-che, non è un problema particolarmente grave per i nostri schemi mentali. Questa immagine non sconvolge la ricostruzione ufficiale della Storia perché si può certamente classificare come un’esposizione astrattamente simbolica. Di conseguenza, chiunque può darle il senso che desidera, applicando la chiave interpretativa che crede, in rapporto alla propria cultura o alle proprie libere convinzioni. Quando mancano sicuri codici di lettura, infatti, non è possibile fissare, come in un Concilio Ecumenico, canoni “ecclesiastici” e disciplinari. Questo perché la conoscenza sperimentale, legata all’acquisizione ed allo studio dei dati, non appartiene ad una Chiesa Universale e soprattutto non implica atti di fede: sono cioè i fatti nuovi e le analisi verificabili a decidere la corretta lettura.

Cosa c’è dunque, in quel gruppo d'immagini, d’inequivocabilmente “diverso”, di così inconciliabile con la storia dei popoli precolombiani, di non riconducibile alle testimonianze archeologiche, e alla cultura, delle popolazioni che hanno abitato quelle terre?

È quello che adesso cercheremo di capire.
Non possiamo tuttavia procedere all’esame dei dati che si trovano sul terreno di Nazca, senza prima accennare ad uno dei principali aspetti della fisica delle particelle elementari: gli effetti della collisione tra particelle subatomiche.

I fasci di particelle subatomiche, accelerati da apposite macchine (sincrotrone, anello d'accumulazione, ecc.), sono convogliati, e fatti collidere, in opportuni dispositivi di rivelazione, come ad esempio una camera a bolle, dove sensibili apparecchiature fotografiche riescono ad immortalare su pellicola l'attimo fuggente della collisione.

Possiamo vedere, nelle figure della pagina, alcuni esempi tipici d'interazioni tra particelle.

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Figura A

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Figura B

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Figura C

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Figura D-1

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Figura D-2

Nella Fig. A (a sinistra la foto, a destra la lettura dell’evento) vediamo gli eventi prodotti dalla collisione d'un neutrino con un protone in una camera a bolle d'idrogeno, nell’area sperimentale del protosincrotrone AGS (Alternating Gradient Syncrotron) del Laboratorio Nazionale di Brookhaven (U.S.A.). La collisione produce quattro pioni p, un muone m,e due elettroni e- che s'allontanano spiraleggiando nel campo magnetico della camera.

La Fig. B mostra la creazione d’un antineutrone in una camera a bolle di propano. La lettera (b) indica il punto in cui si crea l’antineutrone, mentre (a) è la stella d'annichilazione dell’antiparticella.

Nella Fig. C vediamo l’istante in cui un neutrino muonico nm collide con un neutrone, nel liquido a freon-propano della camera a bolle al CERN di Ginevra. Il neutrino, che proviene dal basso nella foto, urta il neutrone nel punto A, causando la produzione di: un protone p, un pione p-, ed un fotone g. Quest'ultimo decade subito nella coppia elettrone-antielettrone.

Ciò necessariamente premesso, possiamo tornare a Nazca. C’è un particolare nella foto d'apertura, sull’estrema sinistra nella parte centrale, che vediamo meglio nell’ingrandimento di Fig. D/1. A prima vista quello che ci appare non è altro che un guazzabuglio di linee, che s’intersecano e si sovrappongono tra loro. Si può capire meglio qualcosa separando le linee, che sono state “scritte” mettendo a nudo il terreno più chiaro, da quelle che appaiono a rilievo in quest'immagine, e che sono state disegnate con un criterio realizzativo diverso. Questo secondo tipo di linee è quello che si trova isolato e ricopiato nella Fig. D/2.

A questo punto ci accorgiamo di qualcosa di sorprendente. Quel complesso di linee paraboliche, linee rette o che improvvisamente si biforcano, e che nascono tutte da un unico centro comune, può anche trovarsi così com’è, e con ogni diritto, su un testo di fisica sperimentale delle particelle elementari. Vedendolo su un libro di questo genere nessuno può pensare che quel grafico sia estraneo alla materia del volume; anzi, un fisico potrebbe addirittura cominciare a leggervi traiettorie, tipiche di questa o quella particella, che esprimono un ben preciso evento collisionale.

Quel complesso di linee invece si trova a Nazca, sulla polverosa sassaia di un antico deserto tra le Ande, e non è la fotografia di un evento che si è verificato dentro la camera a bolle del CERN di Ginevra. Per questa ragione qualcuno potrebbe osservare che si tratta per lo meno di un’illazione gratuita.

Nel caso in cui quelle linee fossero puri elementi decorativi astratti, noi dovremmo pur ritrovarli, come accade per le figure degli animali, sulle ceramiche e sui reperti archeologici della zona. Sappiamo che non è così. Sulle ceramiche, come sui tessuti, dei popoli andini precolombiani, troviamo svariati motivi ornamentali e decorativi, come linee a zigzag, cerchietti, rettangoli, spirali, linee dentellate, margherite stilizzate, un po’ di tutto insomma ma niente che assomigli a quel complesso di linee e curve originate da un centro comune.

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Fig.7

Fiasca con raffigurazione di sciamano intento a "fumare".
Il fumo esce dalla bocca e si trasforma in "sentenze".

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Fig. 8

Figuretta raffigurante un’estasi sciamanica, proveniente dalla
regione di Paracas. Notare il tipico disegno a zig zag.

Cos’è allora quel disegno: una specie di crop circle della preistoria? In teoria è possibile, e in pratica? Si può certo contestare che quel complesso di linee rappresenti deliberatamente la descrizione d’una collisione tra particelle. E’ perfettamente possibile, infatti, che quella combinazione sia frutto del caso oppure quel che resta di un disegno più grande andato perduto.

Jonathan Swift immaginava, nel suo celebre I Viaggi di Gulliver, che nel paese di Laputa (ma Swift conosceva la lingua spagnola?!...) anche il più ignorante di tutti gli abitanti poteva scrivere opere di filosofia, matematica, teologia o altro. Bastava girare la manopola d’una macchina che rimescolava quaranta cubetti di legno. Su ogni faccia di quei cubetti si trovava scritta una parola che, combinata con le altre trentanove, poteva comporre una frase dal senso compiuto. Scartando le frasi irragionevoli, ciò che restava poteva senz’altro risultare un capolavoro.

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Particolare di un mantello di lana della cultura Paracas, decorato con figure
di sciamani in volo. Lima, Museo Nazionale di Antropologia e Archeologia
Fig. 9

Il cibernetico russo Aleksandr Michailovic Kondratov scrisse una volta queste parole, riguardo al fatto che certi eventi si possono verificare per caso: Voler ottenere uno stato ordinato per caso è così illusorio come cercare di creare la statua della Venere di Milo facendo saltare in aria un blocco di marmo con la dinamite e sperando che una delle schegge sia la copia dell’immortale capolavoro.

Non è possibile spiegare con l’etnologia la linea pura di una parabola: infatti questa non può simboleggiare un animale, una pianta, una misura agricola o territoriale, un evento naturale come un fulmine o il sorgere e tramontare di una stella. Potrebbe essere il corno di un antilope, ma non ci sono antilopi sulle Ande. Oltre a ciò, il disegno d’un corno si fa con due linee paraboliche, unite tra loro e prive d'alcun riferimento matematico; manca poi il resto dell’animale, che non potrebbe neanche essere mai stato disegnato, dal momento che sotto quelle linee c’è uno strapiombo. E’ impossibile inserire il disegno d’una parabola in una cultura materiale oppure nel contesto simbolico e articolato d’un mito, o anche in un fantasioso criterio decorativo, che non si trova in quei termini da nessun’altra parte. L’unica situazione in cui questa curva speciale può avere, ed ha, un senso in se è quello fisico-matematico: si tratta infatti d’un puro simbolo astratto, al pari di un’equazione algebrica. Anzi è un’equazione algebrica.

Nel film di fantascienza Incontri ravvicinati del terzo tipo, Steven Spielberg suggerisce l’idea che possa essere la musica il linguaggio con cui intendersi nell’Universo. Quest'idea ha un suo fondamento dal momento che la musica è un’armonia matematica, comunicata attraverso vibrazioni sonore. Ora esiste anche un altro modo per comunicare quest’armonia ed è quello della geometria analitica. Il grafico di Nazca si presta in questo senso in una maniera perfetta alla conversione matematica. Noi infatti possiamo individuare nel disegno un fuoco F della parabola ed una direttrice d. Se assumiamo un asse x passante per F e per il vertice O (nella Fig. D/1 O è l’origine di tutte le linee, a metà strada tra il fuoco F della parabola e la direttrice d), possiamo scrivere l’equazione canonica della parabola rispetto all’asse x, con l’asse y tangente nel vertice O:  y2 - 2px = 0. Questo significa dunque che quella curva è stata disegnata con le caratteristiche e i riferimenti opportuni per indicare l'equazione d’un polinomio che esprime, in geometria analitica, proprio quella forma, vale a dire una curva algebrica del secondo ordine.

“Ammettiamo pure per assurdo - direbbe a questo punto un ipotetico dottor Simplicio - che quel complesso di linee, visto che è disegnato in base ad un criterio fisico-matematico, possa anche indicare una collisione tra particelle subnucleari (materia-antimateria): quale sarebbe allora il senso ed il fine d’un simile disegno, chi e perché avrebbe dovuto lasciare un messaggio simile?”.

Questo “perché” è spiegato a Nazca, ma per poterlo capire è necessaria ancora una digressione, sempre riguardante la fisica delle particelle.

Nel 1954 fu ultimata a Berkeley (California, U.S.A.) la costruzione del primo protosincrotrone e soltanto l’anno dopo, “sparando” un fascio di protoni a 6,2 GeV su un bersaglio di rame, vennero prodotti artificialmente i primi antiprotoni. L’anno dopo, sempre a Berkeley, furono creati anche degli antineutroni, grazie al processo d'annichilazione protone-antiprotone. Verso la metà degli anni settanta erano già attivi i supersincrotroni da 400 GeV, ma la tecnica era sempre la stessa, colpire cioè un bersaglio fisso. Si capì ben presto che con il bersaglio fisso tutte quelle costose energie erano completamente sprecate, perché la maggior parte d'esse andava persa nel rinculo. Il nostro Carlo Rubbia, che in quegli anni insegnava fisica all’Università di Harvard (Massachusetts, U.S.A.) ebbe un’idea: modificare il supersincrotrone per far collidere nello stesso anello protoni ed antiprotoni. Certo lui pensava ad altro, e cioè a scoprire i bosoni vettori della forza debole, ma quello che serviva, intanto, era lo stoccaggio di una buona quantità d'antiprotoni per poter eseguire l’esperimento. Gli americani non gli diedero il minimo ascolto per una ragione molto semplice: come si fa ad immagazzinare l’antimateria che, com’è noto, al contatto con la materia si disintegra e che poi, se c’è, non si può sapere dov’è? Neanche a farlo apposta, in quello stesso periodo l’olandese Simon Van Der Meer, un geniale fisico degli acceleratori, era riuscito a ideare, progettare e costruire un rivoluzionario sistema per la raccolta delle antiparticelle, noto come raffreddamento stocastico. Rubbia tornò allora in Europa e preparò, con Van Der Meer, il progetto per la modifica dello SPS   al CERN di Ginevra finché, nel 1978, la Direzione del Centro approvò la messa in cantiere dell’esperimento. Il Superprotsincrotone di Ginevra divenne in questo modo la prima fabbrica d'antiprotoni del mondo; per la prima volta, grazie al genio di Van Der Meer, erano gli americani a correre dietro all’Europa.

In seguito gli statunitensi misero a punto un loro sistema per lo stoccaggio delle antiparticelle, costituito da un cilindro d’acciaio del peso complessivo di 100 kg, chiamato bottiglia di Penning. Gli antiprotoni, iniettati in questa bottiglia attraverso un cannello, trovano ad attenderli una trappola magnetica, in cui restano confinati fino al momento dell’uso. Tutta la bottiglia poi è foderata da una camicia d'azoto liquido, dentro cui si trova un serbatoio d'elio liquido (270° C sotto zero). La temperatura a tre gradi dallo Zero Assoluto serve a tenere “buoni” gli antiprotoni e a ridurne l’agitazione. La gabbia magnetica può imprigionare fino a mille miliardi d'antiprotoni, che in soldoni occupano lo spazio d’una sferetta dal diametro di un millimetro, come la punta di una penna a sfera.

Le antiparticelle emettono una frequenza-radio inconfondibile che può essere rilevata dall’esterno, e questo permette di sapere dove sono e se ci sono.

                  Per i futuri viaggi nel cosmo sarà proprio l’antimateria il propellente migliore. Il carburante ideale sarà costituito da veri e propri antiatomi d'antiidrogeno che producono, nell'annichilazione con gli atomi d’idrogeno, particelle cariche, utilizzabili da un motore a razzo, senza che siano generati gli ingovernabili, inutili e letali raggi gamma.

                  L’antimateria è attualmente il “carburante” più caro che esiste sulla Terra. Un grammo d'antiprotoni, prodotto nel 2000 al Fermilab di Chicago, sarebbe costato la cifra inimmaginabile di ben 62.500 miliardi di dollari! Per questo motivo, gli americani ne hanno prodotto la quantità di 1,5 nanogrammi (un nanogrammo = la miliardesima parte di un grammo). Il Centro Marshall della NASA sta studiando dei miglioramenti alle attrezzature, che dovrebbero abbassare il costo a cinque miliardi di dollari per grammo.

                  Al CERN di Ginevra è già quasi funzionante l’AD machine (Antiproton Decelerator machine), che è accoppiata ad ATHENA, la macchina che dovrà produrre quanto prima grandi quantità d'antimateria. In questa pagina (Fig. H), possiamo vedere lo schema dell’area di cattura per gli antiprotoni (da un disegno fornito dal CERN).

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Figura E

Figura F

La cosa che lascia sconcertati è quella di ritrovare questo stesso schema a Nazca, proprio accanto al “grafico” della collisione (Fig. I). Vediamo anche che il becco del colibrì si trova alla stessa altezza in cui è collocata, nel grafico del CERN, la finestra per il controllo del fascio sul becco d'iniezione dell’antimateria. Anche questo dettaglio lascia sbalorditi.

Eppure non è finita qui. Si notano ancora sul terreno delle linee binarie che compiono delle ampie curve. E’ possibile che alcune siano dei doppioni eseguiti successivamente, perché s'accavallano caoticamente sulla struttura ordinata del progetto grafico originario. Tuttavia la curva più grande, oltre a ritrovarla anche in altri disegni della Pampa Colorada, richiama anch’essa un’altra struttura del Deceleratore d'antiprotoni di Ginevra. Nella Fig. L in questa pagina si vede la linea TTL2, detta anche dell’iniezione inversa, che ha lo stesso schema, in pianta, del disegno con le linee binarie a Nazca.

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Riuscire a produrre grandi quantità d'antimateria significa poter alimentare, tra le tante cose, anche motori a razzo di potenza inaudita. L’efficienza di un razzo, misurata in impulsi specifici, cambia col cambiare del sistema di propulsione utlizzato. Lo Space Shuttle produce col suo motore principale (miscela ipergolica idrogeno-ossigeno) un impulso specifico di 450 sec; un motore a fusione nucleare ne produce uno di circa 80.000 sec.; un motore ad antimateria potrebbe fornire un impulso che è all’incirca di un milione di secondi.

Ho già detto, in altri miei lavori, in che modo a Nazca sono state fornite “istruzioni” per osservare i cieli, in particolare per il tempo in cui Plutone entra nella costellazione del Capricorno. In quel periodo infatti, che si ripete ogni 250 anni circa, Plutone, attraversando il disco di Kuiper, può causare il distacco di qualcuno degli enormi iceberg, che “pascolano” più o meno tranquilli in quella fascia. Se questi sono immessi in un'orbita fortemente eccentrica, con il Sole in uno dei due fuochi, allora si trasformano in comete di corto periodo. Come fermare un tale corpo celeste che, accelerato nel suo moto dai quattro pianeti gassosi (i quattro cavalieri dell’apocalisse?), potrebbe collocarsi in rotta di collisione con la Terra? Soltanto dei motori ad antimateria potrebbero raggiungerlo in tempo con il compito di spingerlo dolcemente verso un’altra orbita, preferibilmente diretta verso la superficie del Sole. Soltanto motori ad antimateria potrebbero opporsi all’immensa energia cinetica accumulata da quel corpo celeste.

Gira e rigira dunque il discorso cade sempre lì: una serie d'istruzioni per avvisare gli abitanti della Terra dei pericoli che corre il pianeta, ed il modo per difendersi. Di tempo ad ogno modo non ce n’è ancora molto davanti a noi: abbiamo ancora una quindicina d’anni al massimo (se tutto va bene) per rendere operativa una flotta di razzi ad antimateria. Bisogna garantire la massima operatività agli scienziati che lavorano a questo immenso progetto, e che le ingenti risorse finanziarie, necessarie per questo scopo, non vengano mai meno, per nessuna ragione al mondo.

Non si deve far mancare l’informazione su tutto questo e la sensibilizzazione sul tema. Io mi auguro che non vengano a mancare i finanziamenti necessari alla nascita di una flotta d'astronavi ad antimateria, e che questo avvenga nel più breve tempo possibile.

Chi le ha scritte poi quelle cose a Nazca?
Gli Angeli del querceto di Mamrè, naturalmente.

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